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Incomunicabilità e solitudine i mali della nostra società

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Viaggio nell’universo sconosciuto dell’animo alla ricerca di un’armonia ormai sempre più rara

Tra i mali maggiori che affliggono la società, uno dei più diffusi è certamente l’incomunicabilità tra le persone. Per comprendere meglio il significato più profondo del termine, vorremmo sottoporvi l’esame del suo contrario, cioè, la comunicabilità.

Generalmente di una persona che parla molto si dice che è un tipo dotato di comunicativa. Questa cosa ci fa capire che il nemico maggiore della comunicativa è il silenzio. Da qui, una persona che parla poco o per niente è una persona che non comunica.

Ma si dice anche che chi parla poco è abituato a fare i fatti, cioè è uno concreto, che bada al sodo.

Quindi è relativo un giudizio definitivo: un persona può essere negativa o positiva in entrambi i casi. Di un politico che parla da un podio ed espone con grande oratoria le proprie idee si può dire che è un ottimo comunicatore, ma se i suoi propositi  non riesce a tradurli in fatti concreti, risulta essere un politico di scarso peso. Lo stesso si può dire di persone che ricoprono incarichi importanti come presidenti di società, rappresentanti di associazioni umanitarie o dirigenti di imprese statali e parastatali, e che non esaltano la loro leadership con  una buona comunicativa.

La vita insegna che chi possiede questo dono per natura, prima o poi si metterà in luce. Tuttavia, la comunicativa si può affinare attraverso lo studio e l’esercizio: vi sono, infatti, scuole specifiche che insegnano l’arte di parlare in pubblico.

Ma, a parte il mondo degli uomini del potere cui abbiamo accennato,  se il dono sta nel bagaglio naturale di un comune uomo della strada, esso può semplicemente facilitargli la comunicativa col suo simile e rendergli più gioiosa la vita. C’è, però, chi per diverse avversità, o per innata propensione alla riservatezza, ha scelto la via della laconicità o addirittura del silenzio.

Zi’ Nicola de “Le voci di dentro” di Eduardo ha scelto di non parlare non perché è muto, ma perché per esperienza sa che, per non correre il pericolo di non essere capito o frainteso, è meglio tacere. Passa le giornate sul soppalco della bottega in cui vive e sputa addosso a tutti quelli che stanno di sotto per significare che lui è al di sopra della melma che sta di sotto. Nella sua decisione si riassume tutto il significato del malessere che affligge l’uomo, e che determina la solitudine, l’isolamento, il chiudersi in sé stesso, e stare lì a rimuginare sulle proprie preoccupazioni, le paure, gli affanni. Il rifugiarsi nell’incomunicabilità è una scelta libera e legittima di ogni essere raziocinante, da cui, però, dipendono, come sappiamo, molti drammi familiari: separazioni coniugali, contrasti di opinioni, incomprensioni coi figli e dei loro problemi. Pirandello nel primo atto de “I sei personaggi in cerca d’autore” fa dire a uno dei suoi attori: - come possiamo intenderci (...) se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente, le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli ha dentro?-

Ogni essere umano ha dentro un proprio universo, un proprio modo d’intendere che spesso porta a divaricazioni, a diverse scelte di vita, anche estreme.  Queste precludono agli altri la comprensione, la non accettazione di quelle realtà: quindi l’incomunicabilità, l’isolamento.

Ma ci siamo mai soffermati a guardare negli occhi di certi isolati per eccellenza, i vagabondi? Abbiamo mai scambiato quattro parole con loro? Ascoltato le ragioni che li hanno spinti a condurre la vita dell’accattonaggio?

A questo proposito vorremmo citare il film di Pier Paolo Pasolini, che ha per titolo, appunto “Accattone”. Narra  la vita di un povero disgraziato, soprannominato “accattone” isolato da tutti, persino da suo fratello, per la vita misera ch’egli ha scelto di condurre. Citiamo in merito la frase che il protagonista dice sul finale del film, dopo essere stato investito da un’auto che passa in quel momento. I compagni, tra cui suo fratello, corrono in suo soccorso, spaventati. Il fratello gli chiede: -accattone, accattone, come stai? – Lui, moribondo, risponde: - mo’ sì che sto bene.-  cioè “adesso sto bene”. Lo dice nel senso che con la morte si libera del fardello della vita. E’ difficile comprendere questo bisogno d’isolamento per chi conduce una normale vita integrata nella società fondata sul lavoro...o forse, più precisamente, sul “consumo”.

Sì, viviamo in un’epoca consumistica, nella quale non c’è tempo per soffermarsi sui valori umani quali l’amicizia, l’uguaglianza di tutto i cittadini, il rispetto per le differenze, i diritti umani.

Si parla di fasce deboli. Si fanno parecchi discorsi sia da sinistra che da destra, ma ci siamo mai soffermati sui reali bisogni dei deboli? Ci siamo mai chiesto quanti e quali sono i deboli?

Si parla tanto di emarginazione, a parole la condanniamo, nella realtà, però, quante volte la provochiamo col nostro comportamento? Perciò, solo aprendo i nostri cuori agli altri semplicemente parlandoci, si potrebbero appianare i rapporti di tensione coi parenti, dissipare i malintesi con gli amici, la propria moglie, i figli; chiarire gli equivoci sui luoghi di lavoro coi colleghi e ritrovare l’armonia, l’accordo esistenziale indispensabile che farebbe delle nostre giornate momenti di gioia e benessere.

 

 

21 Febbraio
Foto: pixabay
Autore
Sergio Fedro

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