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I mass media in tempo di guerra

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Qual è il loro ruolo? Ecco il Premio Archivio Disarmo-Colombe d'oro per la pace

"I mass media in tempo di guerra: informare o persuadere?" questo il titolo del dibattito, organizzato a Roma dall'Archivio Disarmo con il patrocinio dell'Ordine dei Giornalisti del Lazio. Andando verso la XXXVIIII edizione del Premio giornalistico Colombe d'oro per la pace – realizzato da Archivio Disarmo con il sostegno delle Cooperative aderenti a Legacoop – i giornalisti vincitori delle precedenti edizioni si sono incontrati per discutere del ruolo dell'informazione, durante il conflitto che sta colpendo l'Ucraina. Ha moderato il dibattito Fabrizio Battistelli (Presidente di Archivio Disarmo) che si è complimentato con i presenti, inviati sul campo in occasione di questo e dei precedenti conflitti, "coraggiosi anche in situazioni di stress, raccontando i fatti con professionalità, valorizzando gli elementi di speranza anche nelle tragiche condizioni della guerra". Elisabetta Soglio ha sottolineato "la fioritura di buone pratiche che, paradossalmente, prendono corpo anche nell’emergenza bellica: la mobilitazione spontanea di gruppi e di singoli che ha reso efficace l’impianto dell’accoglienza per i profughi".

Per Giampaolo Cadalanu: "è importante riflettere su media e guerra. Serve un po' più di “freddezza” nell'informazione, mettendo da parte il coinvolgimento emotivo. E' chiaro che senza informazione la dialettica democratica muore, in guerra ancora di più. Ma un'informazione dai toni esasperati non produce un buon lavoro. Il richiamo che mi permetto di fare è di provare a frenare il coinvolgimento emotivo. La via di uscita dalla guerra si chiama pace, non si chiama un’altra guerra, non si chiama escalation, non si chiama coinvolgimento di altri attori. Basta con i toni esasperati, che sicuramente non ci portano sulla strada della pace". Secondo Ugo Tramballi "è estremamente difficile comunicare la realtà del conflitto. Le parti si basano su una propaganda che decide cosa puoi o non puoi dire. Spesso il giornalismo rimane vittima della narrazione generale, altre volte riesce ad approfondire cause e retroscena dei conflitti".

Per Giuliana Sgrena: "L’informazione che riceviamo oggi dall’Ucraina è una informazione oggettivamente embedded. Di fronte all’aggressione russa è naturale essere dalla parte dell’Ucraina anche per il giornalista. Ciò però non vuol dire dipendere dalla propaganda perché in guerra tutti usano la propaganda. L’informazione sembra a senso unico, così circolano forme di spettacolarizzazione della guerra. A volte abbiamo assistito anche a scene di pornografia del dolore. Questo non serve a far capire la guerra, ma solo ad elevare il livello della violenza. Ci vorranno anni prima di poter fare un riflessione su ciò che ha causato questa guerra. Nel frattempo è difficile parlare di vittoria contro una potenza nucleare. La gente vuole la fine della guerra, chi lo rileva non va etichettato come “filo-Putin”, solo perché è una voce fuori dal coro".

Alberto Negri ritiene che "La guerra in corso offre tristi conferme e alcune buone sorprese. La cosa buona sono i giovani freelance, che sono inviati sul campo e che fanno un lavoro splendido, con tutte le difficoltà che ci sono in un fronte di guerra. A volte però la redazione può smontare questo buon lavoro non contestualizzandolo in maniera adeguata. Alcuni giornalisti diventano opinionisti per fare pubblicità a se stessi. L’informazione è sempre più appiattita, prevale il conformismo, circolano “liste di proscrizione”. Anche per Madi Ferrucci l’emotività è inutile e ostacola il dialogo. "I conflitti verbali nei talk televisivi sono una specie di preparazione all’accettazione della realtà della guerra. L’opinione pubblica si polarizza, da occasione di incontro, il dibattito diventa scontro".

Gabriella Simoni osserva: «Questa guerra è stata raccontata più attraverso i dibattiti in studio, che attraverso le immagini della guerra stessa. Quindi mi domando se abbia ancora senso fare l'inviato di guerra, in un momento in cui sembra dominare l’antagonismo "a favore" o "contro". Il buon giornalismo invece è avere prima di tutto un dubbio e andare a vedere. Invece i servizi non diventano spunti di riflessione, ma pretesto per litigi. Si è cercato poco di capire cosa fosse realmente questa guerra in Ucraina, ma si preferiva spettacolarizzare il tutto. La gente ha capito poco di questa guerra non per colpa della politica ma perché noi giornalisti abbiamo fatto a gara a chi arrivava più avanti, a chi rischiava di più».

Dice Pietro Suber: "Il lavoro dell'inviato di guerra, per forza di cose, viene condizionato dal posto in cui si trova. E' capitato anche a me ultimamente, nei miei interventi da Mosca, di dover resistere alle pressioni. Appena arrivato, i servizi segreti russi, nonostante il visto giornalistico, mi hanno fermato per 7 ore, sequestrandomi il telefono che mi hanno restituito soltanto dopo. La buona notizia è che, grazie alle giovani generazioni presenti nel conflitto in corso, il livello di informazione è migliorato"

1 anno fa
Foto: pixabay
Autore
Giada Giacometti

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